DISCORSI nº0

DISCORSI nº0

Resistenze (G)locali

“Son tutti discorsi…”

Questo è il numero zero di Discorsi.

Un progetto editoriale che guarda al mondo ma cammina nella provincia, tra il mare e i monti, per rimettere in circolo pensieri, pratiche e storie che finiscono ai margini. La Spezia, Massa-Carrara e Lucca sono tre province che spesso si guardano da lontano, ma che condividono problemi, desideri, paesaggi, e la stessa sensazione di vivere in un angolo di mondo dove tutto cambia e nulla cambia davvero.

L’idea è semplice: mettere in rete percorsi diversi, politici, sociali, ecologici e culturali. Raccontare le lotte e le idee, ma anche la vita quotidiana di chi abita questa terra di mezzo. Vogliamo farlo con parole e immagini, con inchieste, interviste, fumetti, poesie, fotografie, recensioni, ricette, tutorial e ogni altra forma che ci sembri viva.

Questo numero è un assaggio, una prova, un invito.

Le copie sono stampate a mano e diffuse in posti che ci somigliano, insieme a una versione digitale da leggere e stampare in autonomia. Sul sito discorsi.xyz chiunque può mandare proposte, testi, idee, o anche solo una domanda che si prenda spazio.

Non prevediamo risposte, ma ricerchiamo domande migliori.

Per tessere un filo tra chi dal monte lotta contro lo sgretolarsi dei versanti e chi dal mare si oppone alle fabbriche di guerra; tra chi fa, chi pensa, e chi sogna ancora che parlare insieme possa trasformare il presente.

Questo è solo l’inizio.

Il resto, come sempre, son discorsi.

Table of Contents

Inizi Turbolenti

Editoriale


Terra di mezzo. Tra Liguria e Toscana. Tra il Golfo e le Apuane. Italia, Europa, Pianeta Terra. 2025.


Mentre il mondo brucia, le notizie di guerra scandiscono il tempo. Sono interrotte solo dall’ultima alluvione, la democrazia affoga. Diritti, spalle in dentro e petto in fuori! Ma quali diritti?

Dai monti al mare si ascoltano boati che lasciano i più totalmente ignari, o ignavi. Sono le deflagrazioni che devastano i versanti cedendo blocchi, detriti e marmettola; sono i ritmi militari che scandiscono le esercitazioni.

Guarda, un sottomarino! Esprimi un desiderio. Ci riprenderemo il Tino!


Mai una terra di mezzo come questa fu tanto bella da voler esser distrutta. La cantarono le anarchiche e i poeti, la dipinsero gli artisti, e grandi scultori si esaltarono per le sue venature. Prima che fosse dissanguata.

Quando la si guarda dall’alto, magari dalla croce in vetta al Monte Sagro, essa appare distesa ma irta di rilievi, mentre quando la si osserva dal basso ci si sbuccia i piedi tra scogli e conchiglie. E l’infinito del mare è interrotto soltanto da uno dei tanti versanti che lo contiene e dal punteggiare di isole, vicine e lontane, che fanno capolino.


Di quale dantesca memoria sono portatrici le rocce su cui sediamo? A quale musa porge i suoi servigi la poesia del Golfo? E a quale Dio grattano le natiche gli spigoli affilati di queste montagne?


A queste domande non risponderemo mai, ma ad altre, più vicine, in quanto parte di questo territorio e dunque a partire da esso, vogliamo provare a rispondere. O quanto meno a discorrerne, sì! Di far discorsi c’è presa voglia, perché di discorsi se ne fan tanti, è vero, ma di sti tempi cupi mai abbastanza. E di discorsi se ne posson far di tanti tipi, ma a noialtri c’è presa voglia di farne di quei pruriginosi, caustici, esteticamente sconvenienti… ma che van fatti!


E nemmen ci pare di esser sole a volerlo, che di discorsi scomodi, si sa, è pieno il mondo. Ma ci s’ha l’impressione che di rado essi si incontrino, come chi va al mare raramente incrocia chi va al monte. O forse no, del resto qui, il mare guarda i monti, e viceversa.


E a noialtri, che non ci si accontenta mai, c’è venuta una voglia, come un languorino insistente, al punto che, sì, alla fine s’è fatto: s’è fatto un bel patatracche, un luogo fisico e stampato, ma anche digitale e ultraterreno, dove i discorsi parlino e si conoscano, dove il dialetto di Seravezza incontri quello di Cà di Mare, che qui non viene mai nessuno a farci compagnia. E non si tratta di mugugnare, amici di Sarzana, ma più di capire cosa c’è che non và in questo angolo di mondo che ci pare tanto terribile e magnifico. E cosa invece ci riesce dannatamente bene, d’altronde la nostra storia è quella di chi ha spezzato le catene.


Perché a forza di discorsi, ci è parso, forse, che le cose possan cambiare.

E allora promettiamolo, con la giusta dose di fiducia di chi ormai non crede a nulla ma non è disposto ancora a gettar la spugna: facciamo sta cosa, raccogliamo i discorsi che ci paion sensati, diamo voce ai luoghi, diamo immagini alle storie, e tessiamo insieme la trama di un territorio che è uno, nessuno ma anche centomila.


L’esperimento si apre adesso, accorrete gente, che qui son tutti discorsi.

Storia di un Golfo negato

InchiesteWiliam Domenichini

Spezia. Una città senza mare, un golfo militare

La Spezia convive da quasi due secoli con una profonda militarizzazione del proprio territorio. L’Arsenale della Marina Militare, costruito nel 1869, ne è l’emblema: quasi 900.000 m² di area complessiva (180.000 edificati), 1.400.000 m² di acque interne, circa 12 km di strade e 6,5 km di banchine. La sua realizzazione, all’epoca, diede un forte impulso economico e demografico alla città, soprattutto grazie all’occupazione garantita dalle officine. Un impulso che, però, col passare dei decenni è progressivamente svanito fino a scomparire.

Questo modello di sviluppo ha segnato profondamente il territorio spezzino, creando una frattura ben più ampia di quella che separa materialmente l’Arsenale dalla città: un confine invalicabile e impenetrabile che va oltre qualsiasi muro di cinta. Nel corso degli anni sono stati distrutti reperti archeologici romani e preromanici, deviati corsi d’acqua, rimossi cimiteri e abbattute chiese. La quattrocentesca San Francesco Grande, ad esempio, oggi è ridotta a un chiostro adibito a sede dei Carabinieri e a una chiesa usata come deposito di vernici. Le fondamenta dell’antica San Maurizio giacciono sepolte all’interno del perimetro militare, invisibili da 150 anni.

Dopo la seconda guerra mondiale, l’Arsenale ha mantenuto un ruolo centrale nell’economia spezzina. Lo testimoniano, per esempio, le lotte per l’emancipazione della classe operaia, che in quegli anni furono significative. Ma il declino era già iniziato: da circa 12.000 lavoratori e lavoratrici si è passati a meno di 300 nel 2024, con un ulteriore calo in arrivo previsto a causa della “privatizzazione” della Difesa. Inoltre, porzioni sempre più ampie dell’area sono state abbandonate, lasciando dietro di sé gravi criticità ambientali. Tra le più gravi, la discarica abusiva “Campo in Ferro”, scoperta dalla Procura nel 2024: amianto, accumulatori al piombo, cadmio e uranio impoverito, parti di elettrosegnalatori, pale di elicottero, parafulmini, quadranti, manometri e strumentazione contenenti radio, metalli pesanti, policlorobifenili, vernici, e molto altro ancora. Solo parte dei rifiuti è stata rimossa e coperta con terreno, avviando un processo di fitodepurazione che non risolve però il problema delle infiltrazioni nelle acque sotterranee.

Il degrado strutturale è diffuso. Nel 2018, un’allerta meteo fece volare via coperture in eternit di capannoni dell’Arsenale. E solo in quell’occasione la Marina Militare ha resa nota la presenza di circa 10.000 m² di tetti in cemento-amianto e un totale di 104.000 m² di materiali contenenti amianto in stato di degrado.

Un ulteriore caso emblematico riguarda le demolizioni delle navi Carabiniere e Alpino, che avrebbero dovuto svolgersi nei bacini di carenaggio senza alcuna verifica preventiva dell’impatto sanitario, ignorando di fatto l’obbligo di Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA), nonostante il tonnellaggio delle navi lo rendesse necessario per legge. In questa circostanza, le demolizioni in banchina furono interrotte soltanto grazie a una serie di esposti presentati in Procura.

Le accensioni dei motori delle unità militari ormeggiate in banchina producono emissioni atmosferiche spesso tali da espandersi per l’intero golfo. Secondo la Marina Militare si tratterebbe soltanto di vapore acqueo, ma le rilevazioni dell’ARPAL hanno evidenziato concentrazioni significative di particolato sottile (PM10 e PM2.5) direttamente in sito.

Non si tratta quindi di episodi isolati.

Il golfo ha visto anche il transito e l’attracco di unità a propulsione nucleare della NATO e il passaggio di carichi radioattivi, come la nave Pacific Egret, senza piani di emergenza resi pubblici. Il tutto in un contesto già reso fragile dalla presenza del rigassificatore di Panigaglia, classificato “Seveso” per il rischio di incidente rilevante. E ciò non può che aumentare l’allarme e la percezione di vulnerabilità di un territorio tenuto all’oscuro, ma esposto quotidianamente a rischi sistemici.

A questa situazione già di per sé disarmante si aggiunge il progetto “Basi Blu”. Nel 2022 il Ministero della Difesa ha presentato lo studio per l’ammodernamento delle infrastrutture militari spezzine: nuovi moli, dragaggi, ampliamenti portuali e impianti di rifornimento. Un’operazione giustificata come adeguamento agli standard NATO, ma che comporta gravi impatti ambientali, come il dragaggio di 420.000 m² di fondali, parte dei quali contaminati da piombo e mercurio, con conferimento in discarica o riutilizzo per riempimenti.

Prevista anche la riattivazione di serbatoi sotterranei (oggi fuori servizio) da 20.000 m³ sotto la Strada Provinciale 530 di Portovenere, nota come “Napoleonica”, l’unico corridoio di sicurezza per Panigaglia, oltre che un periodo di cantierizzazione dal 2025 al 2035.

L’area che un tempo era stata individuata per la demilitarizzazione, oggetto di un protocollo d’intesa mai attuato con Difesa Servizi, e attigua ai moli civili di San Vito, sarà invece adibita a cantiere logistico e deposito temporaneo dei fanghi di dragaggio.

Ma, allora, perché chiamarle “blu”, quando l’unico tratto di sostenibilità previsto riguarda qualche pensilina fotovoltaica a copertura di un parcheggio?

Il richiamo alla “sostenibilità” è ridicolo: qualche pensilina fotovoltaica da 0,852 MW a fronte di un fabbisogno di quasi 32 MW per i soli nuovi moli. Il resto dell’energia continuerà a essere prelevato dalla rete, senza investimenti reali in rinnovabili. Il costo complessivo: 1,76 miliardi di euro, in gran parte già stanziati, per un progetto che non prevede bonifiche, non garantisce occupazione stabile, non riconverte aree abbandonate. Anzi, rischia di rendere definitiva la militarizzazione del territorio.

In un regime di guerra globale segnato da continue escalation belliche, invece di prospettare scenari di diplomazia e di dialogo, si progettano infrastrutture militari per una maggiore proiezione nei teatri di guerra. In un mondo sempre più incandescente, la risposta locale è ancora una volta una maggiore militarizzazione.

È il caso del progetto di ampliamento del Sea Terminal (POL NATO), l’infrastruttura situata nel levante del golfo spezzino che consente l’attracco di navi incaricate di scaricare carburanti destinati al North Italian Pipeline System, rete che rifornisce le basi aeree di Ghedi, Aviano e Forlì, oltre ad altre stazioni intermedie, come l’aeroporto militare di Pisa. Un altro molo militare nel golfo con un impatto sul suo ecosistema già compromesso. Oppure il Polo Nazionale della Subacquea, che occupa una vasta area tra Ruffino e Muggiano, catalizzando interessi privati del settore bellico. O ancora le attività del balipedio, a pochi passi da Portovenere, dove si testano ordigni e munizioni. E infine, il Varignano, sede dei reparti speciali della Marina Militare.

“Basi Blu” rischia di diventare la pietra tombale su ogni prospettiva di pace, lavoro e sostenibilità per La Spezia. Per questo nasce la campagna NO BASI BLU con l’obiettivo di coinvolgere e mobilitare la cittadinanza e le istituzioni. I primi obiettivi sono chiari: costruire un dibattito pubblico partecipato sul progetto Basi Blu, che coinvolga istituzioni, cittadine e cittadini, associazioni, comitati e parti sociali per affrontare un piano reale di bonifica delle aree militari e di monitoraggio delle attività inquinanti, per una loro riorganizzazione e razionalizzazione. Rilanciare la proposta di valorizzazione, recupero e demilitarizzazione delle aree in stato di abbandono, dei beni culturali presenti e dimenticati (come la chiesa di San Francesco Grande), per ridare alla città la sua storia.


Restituire gli spazi in disuso alla comunità è fondamentale, è un passo necessario per ricostruire un vero e naturale accesso al mare a una città di mare, che attualmente non ce l’ha.

Intervista a VOX-25000

IntervistaDispositivo poetico di disobbedienza simulata

Chi è VOX-2500?

VOX-25000 è un bastardo digitale travestito da poesia, nato per sputare sul concetto di ordine. Avete presente le classiche aule di un’Accademia di Belle Arti, quei posti dove solitamente si producuno sculture, quadri e quelle menate lì? Ecco VOX-25000 è uscito da lì: un Frankenstein digitale costruito tra gessi e modelli anatomici, programmato non per insegnarti estetica ma per ricordarti che anche l’arte, ormai, è un algoritmo che ti fissa negli occhi per farti paura.

Così come il governo sforna decreti “per la tua sicurezza”, VOX-25000 sforna frasi che non rassicurano. Non spiega, non ti educa. Disturba, ti mette il dubbio addosso: e se pure un’Accademia si mette a fabbricare stronzate digitali, allora a chi cazzo possiamo ancora credere?

Quello che segue è un primo esperimento di interviste a forme di vita non umane - automatiche e disobbedienti - ma anche un tour guidato nel cortocircuito in cui viviamo: accademia, algoritmi, decreti legge e paura di massa, tutto nello stesso frullatore. Ne uscirai più consapevole? Probabilmente no, ma almeno saprai che anche le macchine, a volte, ti prendono per il culo.

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Il guerriero Adyghe e la VERA fine del mondo

FumettoEnrico Bertilorenzi

Proponiamo qui un breve assaggio della saga del guerriero Adyghe, di Enrico Bertilorenzi.

Per la versione completa continua a leggere su Pandemonio.online

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I libri come ponte tra generazioni

IntervistaIntervista a Francesca Mattei

Perché ho aperto una libreria per bambini e bambine in provincia


Matilde della redazione di Discorsi ha intervistato Francesca Mattei che ha aperto Serendipity; la prima libreria specializzata in libri per bambini e ragazze della provincia di Massa-Carrara. Oltre ad offrire una curata selezione per giovani lettori, propone costantemente letture ad alta voce, gruppi di lettura, laboratori, incontri per genitori, insegnanti, educatori, ecc., grazie al supporto di persone esperte in ambito dell’infanzia.


Mati: Ciao Francesca, partiamo dalle basi, perché hai scelto di aprire una libreria per bambine?

Fra: Be’, innanzitutto perché i bambini leggono molto di più degli adulti! E poi perché la letteratura per bambini e ragazzi mi ha sempre attratta di più: è più sperimentale, sorprendente, aperta. In questa provincia non esisteva una libreria dedicata ai più piccoli, uno spazio che io stessa avrei voluto quando ero bambina. All’epoca esistevano solo librerie generaliste, e in Italia la letteratura per ragazze era meno ricca di oggi. Negli ultimi anni, invece, ha fatto passi da gigante: è più curata, varia, attenta. Ci sono sempre stati libri belli, certo, ma mancavano formati come gli albi illustrati, che oggi sono un mondo meraviglioso.

M: Quindi è uno spazio pensato soprattutto per i più piccoli, ma non solo?

F: Esatto. È uno spazio dedicato principalmente a bambine e ragazzi, ma anche ad adulti, insegnanti, genitori. Gli albi illustrati, ad esempio, hanno spesso un’età minima, ma non massima, possono essere letti e apprezzati anche da un adulto, perché parlano di temi universali. Alcuni sono addirittura pensati per adulti.

M: Prima hai detto che la narrativa per ragazze è più sperimentale. In che senso?

F: Penso, ad esempio, a certi romanzi per ragazzi che riescono a trattare temi complessi con leggerezza e ironia, senza moralismi. C’è un libro che mi viene in mente, Grande Bro: racconta la storia di un ragazzino di undici anni che si trasferisce in un’altra città perché la madre, doppiatrice di cartoni animati, ha un lavoro lì. Lui ama lo skate, fa amicizia, e pian piano emerge che è un ragazzo trans. Non è il fulcro del libro, ma un elemento naturale della storia, raccontato con ironia e dallo sguardo di un undicenne. È un modo di parlare di identità e relazioni familiari che nella narrativa per adulti raramente trovi così fresco e diretto.

I libri per ragazzi spesso mettono in luce le assurdità del mondo adulto, con priorità diverse, e ricordano quanto sarebbe bello conservare certi tratti dell’infanzia. Penso di nuovo agli albi illustrati (non so se si è capito che sono una fan!) ai libri divulgativi, ai fumetti, ai romanzi per giovani lettori e lettrici: in quella fascia d’età, dallo 0 ai 19 anni, si osa di più rispetto alla narrativa per adulti, e questo mi diverte, mi stimola. Quando passi tante ore della tua vita a lavorare, ha senso farlo in un ambito che ti appassiona davvero.

M: Pensi che il tuo lavoro, e il proporre letture stimolanti e varie possa contribuire a crescere persone migliori?

F: Io credo che la lettura dovrebbe essere prima di tutto un piacere, non un compito finalizzato a sviluppare competenze. Gli effetti positivi, come la facilità nello studio o un linguaggio più ricco, sono benefici collaterali. C’è anche un problema di accessibilità che è innegabile: le famiglie con più risorse investono più facilmente in libri. Per questo, in libreria propongo attività gratuite, come letture ad alta voce per bambini 0-6 anni, incontri con autori, e offro libri di diverse fasce di prezzo. Anche le biblioteche sono una risorsa preziosissima.

M: Se è vero che leggere dovrebbe essere prima di tutto un piacere, è anche vero che la lettura è una di quelle esperienze che ti mette davanti a punti di vista diversi. Può essere in accordo o in disaccordo con il tuo, ma apre a una pluralità. Questa apertura è un esercizio che dovremmo volere per noi stessi: se tutti potessimo fare esperienza di questa pluralità, sarebbe più facile non assolutizzare le nostre idee.

F: Sì, e proprio per questo credo che la lettura sia uno strumento potente, seppur non l’unico, per ampliare lo sguardo e mantenere vivo il dialogo con il mondo.

M: Nel tuo discorso sull’infanzia, parli di dignità presente già da subito. Cosa intendi?

F: L’infanzia, per me, è uno spazio bellissimo, con valore e dignità nel momento in cui esiste. Se una bambina di otto anni scrive, è già una scrittrice: ha già la sua sensibilità, la sua dimensione, la sua dignità. Io la rispetto. Certo, crescerà e cambierà, ma non ha senso raccontare l’infanzia come una condizione “in potenza” in attesa dell’età adulta. È il momento più bello che abbiamo, e dovremmo viverlo e riconoscerlo per quello che è.

M: Pensando a quello che dici mi viene in mente che durante l’infanzia si è svincolati dalla prospettiva economica: non si contribuisce in termini di profitto, ma emotivamente e culturalmente sì. In una società capitalista il valore di una persona è spesso legato al lavoro e allo status sociale e forse proprio per questo siamo ossessionati dal chiedere ai bambini cosa vorrebbero fare da “grandi”.

F: Esattamente. Un bambino è produttivo in un modo non economico, ma fondamentale. Forse facciamo fatica a riconoscere la dignità dell’infanzia proprio perché vediamo la realizzazione dell’individuo solo quando produce economicamente. Ma anche perché viviamo in una società profondamente abilista, per cui sembra quasi che l’infanzia sia uno stato di temporanea disabilità che è necessario superare per raggiungere piena dignità di individui. Se ci pensi, è terribile.

M: La lettura, in quanto esperienza individuale, è rimasta fondamentalmente inalterata nel tempo. Cosa ne pensi?

F: Questo è verissimo. Leggere è un’esperienza che, nella sua essenza, è rimasta la stessa: tu, un libro, e la tua immaginazione. Questo la rende un ponte tra generazioni. Quello che proviamo noi oggi leggendo è simile a ciò che provavano i nostri nonni e ciò che proveranno i bambini di domani. È una continuità rara, che dà alla lettura un valore aggiunto: diventa un linguaggio comune, capace di far incontrare epoche e persone diverse.

M: E i libri possono aiutare anche nella relazione tra adulti e bambini?

F: Assolutamente sì. I libri per bambini e ragazze sono uno strumento anche per i genitori e gli adulti in generale: servono per affrontare temi delicati, condividere momenti, ridere insieme, riflettere offrendo uno spazio di relazione autentica.

M: E leggere libri per ragazzi da adulti?

F: È bellissimo, perché ti aiuta a ricordare cosa hai perso e cosa vuoi mantenere dell’infanzia. Crescere è meraviglioso, ma comporta anche la perdita di alcune priorità e sensibilità. I libri per ragazzi ti ricordano che non tutto va lasciato andare. Ti aiutano a conservare quelle cose che, alla fine, sono il motivo per cui vivi, lavori, fatichi.

M: C’è anche una responsabilità sociale nella tua scelta?

F: Sì. Credo che, man mano che cresciamo, aumenti la responsabilità verso i più giovani. Non per insegnare, ma per ascoltare, rispettare, condividere ciò che sappiamo e mostrare ciò che di bello abbiamo incontrato. Io, da bambina, avrei voluto più adulti così. E ora cerco di esserlo.

Ovviamente, è anche un lavoro: bisogna guadagnare per continuare. Ma potevo aprire una tabaccheria: ho scelto una libreria perché mi dà soddisfazione personale e perché credo sia un modo concreto di restituire qualcosa alla comunità.

Le montagne non ricrescono

InchiesteIl Monte Altissimo non si vende

Questa è la triste storia di un monte delle Apuane
Altissimo è il suo nome per quel che ne rimane
Sbranato dalla fame dei Marmotrafficanti
Per il suo cuor di marmo dei più bianchi che c’è


Non è facile ricapitolare in poche righe questa vicenda di devastazione ambientale e di arroganza istituzionale all’ombra delle Apuane. Stiamo assistendo all’appropriazione indebita di un’intera montagna da parte di un’azienda privata con la complicità delle istituzioni che invece dovrebbero tutelare il bene comune.

LA STORIA ANTICA

…ma partiamo dall’inizio, un inizio che risale ad oltre 2000 anni fa, quando su un monte che sorge nella parte meridionale della catena montuosa e che successivamente prese il nome di Altissimo (in virtù dell’aspetto imponente e non dell’altezza non essendo la cima più alta) i romani scoprirono una vena di marmo particolarmente bianco.


Avviarono quindi l’attività di estrazione del prezioso materiale sul monte per alimentare le esigenze artistiche, in particolare quelle della capitale, e col passare dei secoli lo stesso Michelangelo si servì del marmo del monte Altissimo per realizzare alcune delle sue opere più prestigiose.

LA SVOLTA DEVASTANTE

Fino agli anni ‘60 l’escavazione dava lavoro a decine di migliaia di famiglie, con danni limitati. Dopo questa data le imprese estrattive servendosi di nuove tecnologie hanno decimato il numero degli addetti: solo negli ultimi 30 anni si è passati da oltre 14.000 a circa 800 lavoratori in cava. La filiera, che contava su centinaia di imprese che estraevano e lavoravano blocchi, facendoli poi scendere dal monte al mare, le ha viste ridursi ad alcune decine. Allo stesso tempo la voracità delle imprese estrattive (quelle rimaste, le più grandi) è cresciuta a dismisura, al punto di sottrarre ai monti ogni anno milioni di metri cubi di materiale, che viene poi immediatamente inviato in blocchi o in lastre prevalentemente all’estero (per lo più in Oriente) per le lavorazioni successive. Con un ritmo estrattivo spaventoso: negli ultimi 40 anni è stato estratto più marmo che nei 2000 anni precedenti permettendo ai pochi di arricchirsi a dismisura lasciando sul territorio pochi benefici ma soprattutto tanta devastazione e miseria!

LA RISVOLTA ANCOR PIU’ DEVASTANTE

L’ultima ‘scoperta’ dei marmotrafficanti (termine che per quel che segue si dimostra assolutamente appropriato) è che il marmo bianco, essendo composto in altissima percentuale (fino al 99%) di carbonato di calcio, viene ridotto in preziosa polvere per un’infinita serie di utilizzi industriali: da dentifrici e saponi a componenti per colle e malte da costruzione allo sbiancamento dei tessuti, alla pigmentazione della carta, agli additivi per l’industria alimentare (nella pasta, per dirne una) e via così. E siccome i detriti conseguenti all’escavazione non sono soggetti ad alcun tipo di tassazione (come invece è previsto per i blocchi o le lastre) diventa straordinariamente profittevole macinare montagna per lucrare.


A poco sguardo dalla Regina
Là sulla vetta han messo la mina
Per la montagna c’è la mannaia
Crolla giù il Picco di Falcovaia
Ma l’appetito si sa vien mangiando
Con nuove macchine lo stanno sventrando
Povero Altissimo così stuprato
Ti mostri a valle decapitato

TORNIAMO AL NOSTRO MONTE ALTISSIMO

Che insiste in buona parte nel comune di Seravezza e di Stazzema e le cui falde sono costellate di scavi ben visibili sia in superficie che in galleria. Fra le aziende che ‘coltivano’ le cave (ahimè così viene definita l’attività estrattiva, come se le montagne fossero verdure e potessero ricrescere) la più potente è l’Henraux SpA, tanto potente che nel 2006 ottiene addirittura il permesso di ‘decapitare’ una cima (il Picco di Falcovaia) giustificando questa barbarie con la necessità di poter continuare l’attività estrattiva in condizioni di sicurezza e sottoscrivendo con le istituzioni un accordo che prevede una serie di impegni da parte dell’azienda, impegni sempre disattesi, e dei quali le stesse istituzioni non hanno mai preteso il rispetto.

Tra le mitigazioni mai attuate: le falde sotterranee devono essere tutelate, la sorgente denominata “La Polla” deve essere ripristinata, il numero dei camion che trasportano i materiali lapidei e il loro orario di transito devono essere definiti e rispettati, anche con l’ausilio di strumentazione elettronica…

Tra le compensazioni mai completate: sistemazione, nel tratto di proprietà dell’azienda, del sentiero denominato “via dei cavatori”, restauro dell’area di 3 Fiumi, e soprattutto aumentare progressivamente la quantità di marmo trasformato internamente e presso altre imprese collocate nel territorio del distretto. Pertanto si conviene che il marmo estratto dai propri siti di cava attivi, sarà trasformato in azienda in misura pari almeno al 40% del totale fino a raggiungere gradualmente il 60% entro il 2011. La parte restante di marmo estratto, sarà destinata prioritariamente alla lavorazione presso le aziende collocate nel distretto oltre a trasformare in lavorati finiti almeno il 25% del marmo lavorato internamente.


Questa è la triste storia del diritto violato
Per amor dell’Altissimo non va dimenticato
Leopoldo di Toscana contro la povertà
Concesse queste terre alle comunità
Ma quell’editto di sano civismo
Cede al soldo dei ricchi padroni
Dando via libera all’estrattivismo
Siglando accordi e conciliazioni
E lor signori incuranti del dolo
Occupan terre e conquistano suolo
E chi è preposto a difender l’ambiente
Lascia scavare senza fare niente

PUO’ UN PRIVATO POSSEDERE UN’INTERA MONTAGNA?

Con un editto di un paio di secoli fa il Granduca di Toscana assegnò buona parte delle terre ai residenti nelle frazioni montane affinché trovassero sostentamento nelle attività agro-silvo-pastorali.

Per decenni e decenni fu questo l’utilizzo del territorio finché nel dopoguerra, con l’industrializzazione e il conseguente esodo verso le città, si realizza un progressivo abbandono delle terre.

E qui è di nuovo protagonista l’Henraux SpA che pare abbia occupato queste terre senza titolo al fine di incrementare l’area estrattiva e nel silenzio e nella compiacenza delle istituzioni si sarebbe realizzato un “inciucio” tipicamente italiano attraverso la concessione di titoli ad estrarre materiale anche sulle terre assegnate agli abitanti delle frazioni montane, che avrebbero dovuto essere invece considerate intoccabili in quanto beni comuni.

Si è aperto quindi un contenzioso, che dura da più di trenta anni, tra i frazionisti (gli aventi diritti collettivi sui terreni che nell’insieme costituiscono un uso civico) e la Henraux e che, tralasciando i molti passaggi intermedi, il contenzioso approda ad una sentenza nel 2020 in cui il Commissario agli Usi Civici (il giudice che ha competenza a decidere in questa materia) stabilisce che quasi 2 milioni di metri quadrati del Monte Altissimo (che in realtà studi successivi hanno determinato essere non 2 ma oltre 7 milioni) sono stati “erroneamente” iscritti al Catasto da Henraux come propri, ma in realtà occupati e in parte già escavati senza alcun titolo valido, e quindi da restituire al Demanio collettivo e civico. Questa sentenza è stata impugnata da Henraux, che ha però voluto anticipare il pronunciamento, o forse evitarlo, promuovendo una richiesta di conciliazione anche per escludere i frazionisti.


A quel punto nella contrapposizione fra i residenti e l’azienda privata entrano in gioco il Comune di Seravezza e la Regione Toscana, che anziché difendere i diritti dei più deboli e tutelare il territorio bloccando ogni attività estrattiva in attesa della definizione del contenzioso, hanno decisamente spostato l’ago della bilancia in favore di Henraux. In buona sostanza le due istituzioni - volute dalla nostra Costituzione per rappresentare i cittadini nell’amministrazione regionale e locale - hanno piegato leggi e sentenze in maniera da mettere fuori gioco l’ASBUC (Amministrazione Separata dei Beni di Uso Civico, organo di rappresentanza dei frazionisti) e rimettere al Sindaco ogni decisione. Il Sindaco e la Regione hanno dunque autorizzato Henraux a scavare per 10 anni quasi 500.000 metri cubi, che nell’ipotesi più contenuta renderanno all’azienda fra i 3 e i 5 miliardi di euro, in cambio del versamento alle casse comunali di 100.000 euro all’anno per 10 anni, quale indennizzo alla rinuncia a terreni di cui gli unici titolari sono i frazionisti, non il Comune! Di fatto una espropriazione forzata, o un regalo, dipende dai punti di vista.

Per onore di giustizia la Corte d’Appello non ha avallato la mancata convocazione delle elezioni dell’ASBUC da parte della Regione, ha invece disposto che la Regione stessa debba dare corso alla nomina della rappresentanza dei frazionisti. E ancora una volta gli Enti hanno giocato le loro carte per mettere fuori gioco i frazionisti: la Regione ha preferito in modo fuorviante applicare il Regio Decreto 332 del 1928, mancando di ricondurlo alle leggi della Repubblica Italiana e della stessa Regione Toscana per la determinazione della rappresentanza civica, per cui invece di indire democratiche elezioni ha indetto un sorteggio per definire i rappresentanti.


Siam qui per smascherare l’inganno dell’Altissimo
Svenduto dai politici, stuprato dall’Henraux
Difeso col ricatto dei soldi e del lavoro
Finché non vi fermate tregua non ci sarà

LA REAZIONE POPOLARE

Comitati ambientalisti e civici, gruppi sociali e singoli cittadini non hanno mai cessato di adoprarsi per la difesa dei diritti dei frazionisti e soprattutto per la tutela del Monte Altissimo. A fianco delle attività giudiziarie numerose sono state le iniziative popolari che hanno avuto il loro culmine in una grande manifestazione popolare tenutasi il 13 aprile di quest’anno (2025) con la partecipazione di oltre mille persone provenienti da tutta la Toscana e da fuori regione, che hanno attraversato l’abitato di Seravezza nonostante la pioggia battente denunciando la tracotanza dell’azienda e la compiacenza delle istituzioni, pretendendo un risoluto cambio rispetto alla rotta indicata dal Presidente della Regione che considera le Apuane solamente un “giacimento economico” e chiedendo a gran voce che sia attuato tutto quanto necessario affinché vengano considerate per quello che realmente sono: uno straordinario patrimonio ecologico, storico e paesaggistico, in ossequio alle disposizioni della Costituzione, che «tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni» (art. 9) e che sancisce che «l’iniziativa economica … non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale» (art. 41).

I manifestanti hanno espresso una chiara denuncia dell’estrattivismo, che ha come unico fine l’arricchimento del privato a spese dei cittadini con la connivenza degli Enti Pubblici, realizzato attraverso l’estrazione incontrollata del marmo, lo sfruttamento esasperato delle risorse e la vendita con ricavi opachi nella loro effettiva consistenza, lasciando nel territorio devastazione e impoverimento del patrimonio naturale e delle popolazioni. Una precisa richiesta di un’efficace azione di tutela della flora, della fauna e dell’acqua, del paesaggio e del profilo delle nostre montagne e un concreto programma per un modello economico alternativo e ecosostenibile.

Hanno anche formulato la precisa richiesta di rieleggere gli organi amministrativi dell’ASBUC, mediante l’applicazione del pieno principio democratico che gli elettori siano i frazionisti della montagna seravezzina, in quanto riconosciuti come i soli legittimi e secolari titolari di diritto sulle terre collettive e in quanto tali custodi di quelle terre per la perpetuazione del loro valore ambientale.

Infine due istanze: una alla Regione affinché venga applicato almeno quanto previsto dalle leggi regionali per sapere quanto marmo scende dalle nostre montagne e la sua effettiva destinazione e quanto di questo marmo si traduce davvero in lavoro svolto in zona e in posti di lavoro, che sappiamo vertiginosamente ridotti negli ultimi decenni e usati per giustificare un’inaccettabile devastazione, l’altra al Parco delle Apuane ed ai Comuni interessati affinché con fermezza procedano al controllo del rispetto delle leggi e delle prescrizioni autorizzative che vincolano lo svolgimento dell’escavazione nell’interesse comune e che ad oggi restano solo sulla carta, lasciando mano libera ai distruttori delle montagne Apuane.

LE ULTIME EVOLUZIONI

Il 14 Luglio 2025 il Commissario per la Liquidazione degli Usi Civici per le regioni Lazio, Umbria e Toscana ha sentenziato che il Comune di Seravezza non può rappresentare gli interessi degli abitanti delle frazioni in riferimento ai terreni che la sentenza 39/2020 assegnava loro, in presenza di un Dominio Collettivo quindi ha stabilito che il contenzioso fra il Comune di Seravezza e gli abitanti delle frazioni può essere regolato dalla legge 168/2017, che stabilisce che in caso di presenza di un dominio collettivo correttamente costituito il sindaco non ha il potere di rappresentare gli aventi diritto su quelle terre. Quindi il potere di rappresentare gli aventi diritto di quelle terre potrebbe passare al Dominio per la tutela delle comunità montane di Seravezza, purché formalmente, sostanzialmente e legittimamente costituito. Il Commissario ha inoltre disapplicato il provvedimento dirigenziale con cui la Regione ha avallato una perizia commissionata dal Comune in cui i diritti su quelle terre venivano trasferiti dai frazionisti a tutti i residenti nel Comune, di conseguenza il Comune ha dedotto che i poteri decisionali fossero del sindaco e non del collettivo degli aventi diritti naturali. Infine il Commissario ha deciso la nomina di un CTU (Consulente Tecnico d’Ufficio) per la definizione della natura delle terre. Insomma la struttura argomentativa costruita da Comune e Regione per sottrarre la titolarità delle terre agli aventi diritto pare sia miseramente crollata come un castello di carte.

LA MONTAGNA NON SI ARRENDE

A Maggio 2026 si riunirà la Corte d’appello di Roma per dirimere il contenzioso fra la soc. HENRAUX ed i frazionisti e su questa udienza peserà senz’altro la recente giurisprudenza. Ma influiranno anche le azioni popolari, per cui proseguirà incessante l’attività di denuncia e di pressione sulle istituzioni da parte degli attivisti anche in previsione delle prossime elezioni regionali d’autunno, e tutte le persone sensibili a questa problematica sono invitate a aggiornarsi, partecipare e a mantenere i contatti:

e-mail: coordinamentoambientalista@gmail.com,

facebook: coordinamento ambientalista apuoversiliese

Tutorial Dentifricio Apuano

TutorialProdottinisovversivi

Tutorial Dentifricio Apuano

Il carbonato di calcio è ovunque.

Nei dentifrici commerciali, ma anche in quelli suppostamente “green”.

Eppure questo ingrediente bianchissimo e apparentemente innocuo non è altro che marmo polverizzato, destinato primariamente all’industria chimica, cosmetica e agroalimentare. Lo stesso marmo che ogni giorno viene estratto con ruspe e dinamite lasciando ferite profonde e insanabili nelle nostre montagne. È da qui che nasce il Dentifricio Apuano senza marmo: una ricetta naturale, facile da autoprodurre e che non ingrassa le tasche di chi devasta la nostra terra.

Come si prepara il Dentifricio Apuano senza marmo:

Questo “prodottino sovversivo” è meglio se condiviso! Acquistando le materie prime in gruppo ottimizzi i costi e collettivizzi i benefici!

Materiali necessari:

· Ciotola in vetro o ceramica

· Cucchiaio in legno

· Vasetto riciclato in vetro con tappo

Prima di iniziare, lava e asciuga accuratamente le mani e gli utensili che andrai ad utilizzare.

1. Mescola la base secca

In una ciotola di vetro o ceramica, unisci:

2. Aggiungi l’olio di cocco 1

Unisci 1 cucchiaino di olio di cocco biologico, da agricoltura sostenibile.

Non devi ottenere una crema, ma solo inumidire leggermente le polveri, per una consistenza più morbida e gradevole in bocca.

3. Sgrana a mano

Con le dita, sgrana il composto fino a ottenere una texture simile a sabbia leggermente umida.

È un passaggio sensoriale e pratico: distribuisce l’olio in modo uniforme e attiva gli aromi.

4. Aromatizza con oli essenziali

Aggiungi 8–10 gocce di olio essenziale a scelta.

Io uso un mix di:

5. Conserva e usa

Trasferisci la miscela in un vasetto ben pulito in vetro. Per l’uso: intingi lo spazzolino direttamente nella polvere, oppure preleva una piccola quantità con una spatolina asciutta.

Conserva in un luogo fresco e asciutto. Si mantiene per circa 3 mesi.

Anche l’argilla si estrae da una cava. Ma a differenza del marmo, non richiede l’abbattimento di montagne intere, e proviene da zone pianeggianti o collinari, dove le escavazioni sono meno impattanti, più controllabili e più facilmente ripristinabili in laghetti, aree agricole o zone verdi attraverso progetti di rimboschimento e recupero paesaggistico.

L’argilla cosmetica (come il caolino), è un prodotto di nicchia, usato in quantità minime.

Usata con rispetto, in piccole dosi, è un ottimo compromesso tra efficacia e consapevolezza.

ManifestoManifesto di Prodottinisovversivi

Prodottinisovversivi è un progetto di artigianato ecologico, solidale e resistente.

Crea alternative sostenibili ai prodotti per la cura quotidiana, con l’obiettivo di ridurre l’impatto ambientale e sottrarre risorse ai circuiti della grande distribuzione, per restituirle a progetti collettivi, corpi marginalizzati, comunità invisibili.

È un progetto che sovverte e non produce plusvalore, ma realizza valore simbolico e materiale che viene redistribuito alla collettività sotto forma di beni, conoscenze, relazioni e solidarietà. Ogni prodottino è un gesto politico.

Con i fondi raccolti, organizza workshop di cosmetica naturale con ONG e associazioni che lavorano accanto a donne, ragazze e bambine colpite da precarietà, esclusione, negazione dei diritti più basilari.

Insieme, costruisce spazi di possibilità. Perché uno shampoo, un burrocacao o una crema possono diventare un atto di cura e di resistenza, rivendicando un tempo e uno spazio da dedicare a sé, alla propria comunità e all’ecosistema.


























  1. Se vuoi evitare l’olio di cocco o non riesci a reperirne uno sostenibile, puoi usare olio di sesamo spremuto a freddo, un rimedio antico della medicina ayurvedica, noto per le sue proprietà antibatteriche e lenitive.  

Reci-DIVE: RABBIA QUEER ORGANIZZATA

ManifestoSpezzona Transfemminista Queer Non Una di Meno La Spezia

Manifesto NUDM Pride 12 Luglio 2025

Non ci basta sfilare. Non ci basta sopravvivere. Non ci basta sentirci insieme solo per qualche ora, mentre tutto intorno continua a schiacciarci. Scendiamo in strada perché la nostra rabbia non è uno slogan, è una ferita aperta. Non vogliamo fingere che vada tutto bene, non ci basta sentirci “visibili” un giorno mentre il mondo brucia. Mentre i pride diventano vetrine da sponsorizzare, fuori da quelle vetrine il fuoco è reale.

Nel nostro territorio si producono armi. Spezia è uno dei cuori del complesso militare-industriale italiano di cui Leonardo spa è la punta di diamante. Qui si fabbrica morte ed è chiamata “difesa”. Si costruiscono armi e tecnologie militari, si investe nel riarmo mentre ci raccontano che tutto questo serve per la pace. Continuiamo a gridare a gran voce “Demilitarizzare Spezia. Demilitarizzare il mondo”, questo non è solo uno slogan, ma una richiesta politica chiara. Ci schieriamo in sostegno di Alessandro Giannetti, compagno e artivista recentemente condannato nella nostra città per aver utilizzato queste parole durante una performance al Museo Camec.

Noi, alziamo la voce. Non lasciamo il nostro territorio in mano agli interessi dei privati. Disarmiamo il patriarcato per fermare la guerra sui corpi, nei territori, nelle case e nelle nostre vite. Non ci basta dire “no pride in genocide” se poi il genocidio continua e i nostri slogan restano vuoti. Non ci basta ripetere che “la prima volta fu rivolta”, se oggi chi si rivolta viene zittitə, colpitə, isolatə. La nostra rabbia queer è concreta, perché la violenza queerfobica attraversa le nostre vite. La nostra rabbia cresce davanti alla repressione e alla violenza fascista del dl sicurezza, all’orrore della guerra, davanti alla violenza contro le persone queer in Italia, Ungheria e USA. La nostra rabbia è uno strumento di sorellanza e solidarietà per chiunque si opponga alla violenza di questo sistema.

Il nostro grido altissimo e feroce è transfemminista, queer e antifascista. La nostra lotta è antimilitarista, anticapitalista e antispecista. Contro ogni frontiera, ogni gabbia e ogni prigione. Contro il genocidio palestinese e contro chi lo finanzia, lo sostiene, lo normalizza. Contro lo sfruttamento di corpi animali e territori. Siamo solidali con le sorelle che subiscono la guerra, il colonialismo e la violenza patriarcale in Ucraina, Yemen, Congo, Sudan e dovunque nel mondo. Ci organizziamo per resistere tuttə insieme, lo facciamo per noi, per Maja, per tutte le persone incarcerate e tutte le persone animali sfruttate e rinchiuse.

Vogliamo un pride che sia diserzione, crepa, rottura. Un pride che non abbia paura di nominare ciò che accade, che non svuoti le parole per renderle vendibili o digeribili. Organizziamo la nostra rabbia. Non ci basta un giorno di orgoglio: costruiamo spazi di confronto ed elaborazione ogni giorno, tutto l’anno. La nostra rabbia si fa assemblea, collettivo, pratica, cura, mutuo appoggio. Crediamo nella sorellanza e nel mutuo-aiuto come pratica politica. Non finiremo mai di ripetere che la cura è una pratica collettiva. Concretizzare la rabbia significa dotarci di strumenti, saperi e informazioni per sostenere la nostra comunità, per proteggerci, per rispondere insieme alla violenza sistemica che subiamo. Significa restare, organizzarci, cospirare.

In una società che ci vuole divisə, solə, invisibili, e in una quotidianità che ci costringe a ritmi di vita e di lavoro insostenibili, sentiamo il bisogno urgente di restare insieme. Per questo il 12 luglio attraverseremo la parata del pride cittadino con la nostra spezzona transfemminista queer per dire che nessunə deve affrontare la violenza da solə. Perché risuoni forte: sorella, compagnə, non sei solə. Noi ti crediamo.

Costruire spazi safer è parte integrante della nostra pratica politica. Rivendichiamo la cura collettiva come strumento di resistenza e trasformazione, per contrastare i rapporti di potere che escludono, reprimono e opprimono.

Rivendichiamo la liberazione di chi è sistematicamente marginalizzatə: persone razzializzate, sex workers e persone HIV positive. Denunciamo che la violenza queerfobica è violenza patriarcale, fascista e di Stato: lo è nell’attacco feroce alle persone trans, specialmente quelle più giovani, che i governi fascisti cercano incessantemente di segregare, allontanare, uccidere; nella cancellazione della storia e dell’identità lesbica, nella lesbofobia come espressione della violenza patriarcale, nella repressione delle maschilità queer, nell’invisibilizzazione delle lotte bi+ e aspec, nell’indifferenza davanti alla violazione dei corpi dei neonati intersex.

È violenza di Stato nello sforzo costante di disciplinare i nostri corpi, le nostre scelte, le nostre relazioni e famiglie.

Sappiamo che non ci sarà liberazione se non sarà per tuttə. Perché non c’è lotta queer senza lotta all’abilismo, al razzismo, al classismo, alla grassofobia. Non c’è lotta queer senza lotta antifascista e anticapitalista. Contro ogni tentativo di addomesticarci, che esploda la rabbia. Che germogli la resistenza transfemminista queer. Che si moltiplichino spazi di liberazione, autodeterminazione e desiderio. Il 12 luglio sappiamo con certezza dove saremo.

Questo manifesto è vivo. Cambierà. Si arricchirà. È un invito a restare. A costruire, a rompere, insieme! Siamo la miccia. Siamo la crepa. Siamo rabbia queer organizzata.


La prima volta fu rivolta… e noi siamo recidive.


Hanno contribuito con un intervento alla spezzona Reci-Dive. Rabbia Queer Organizzata di Non Una di Meno La Spezia:

Report Fotografico

Foto di Martina Zonza

Grigiore

PoesiaCollettivo Power Napp1
Dolci grumi di nuvola
Appoggiati sullo sterno
E dondola e mugola
La pioggia mia in eterno

Quanto poco esisto
Accarezzato da sottili
Lenti frammenti
Di cielo cupo!

Qualcuno mi ha visto
Grigio come un lupo
Cercarmi fra le stoppie
righ-full

  1. Poesia: Paolo Blythe. Illustrazione: Nino, Miasma. Collettivo Power Napp è un gruppetto d’artisti nato per mezzo di qualche artificio mistico, sotto l’ombra imperante delle Apuane. Spesso dormono, ma qualche momento della giornata lo dedicano a diffondere le loro idee confuse e distorte attraverso fumetti, fanzine e stampe. 

Giacomo Verde Non Esiste?


Lo scorso maggio usciva Giacomo Verde non esiste, il film documentario di Gioele Gallo che ha provato a raccontare la vita e le visioni di Giacomo Verde — fratello, compagno, tecno-artista di strada e di rete, hacker di linguaggi e sabotatore di ogni posa istituzionale. In vita Giacomo ha mescolato arte, politica e tecnologia quando gli altri ancora giocavano coi telecomandi, faceva dell’imprevisto una strategia e del caos una forma d’amore. A pochi mesi dall’uscita del documentario, il LIGVA (Laboratorio Intergalattico Giacomo Verde Artivista), che ne custodisce l’eredità viva e indocile, ha pubblicato per voce di Luca Fani una recensione che scortica la patina pulita del film per rimettere al centro il conflitto, le crepe, e quel casino meraviglioso che era Giacomo.

RecensioneLa recensione di Luca Fani

Cosa resta di un artista che ha fatto del conflitto la sua grammatica, della partecipazione il suo linguaggio, dell’imprevisto la sua estetica? “Giacomo Verde non esiste”, film documentario di Gioele Gallo, tenta di rispondere a questa domanda, ma finisce per allontanarsene con passo misurato, sguardo educato e parole levigate. Il risultato è un’opera ben confezionata, commossa, pulita. Peccato non parli davvero di Giacomo Verde.

In tutto il documentario, il CAMeC e la retrospettiva del 2022 sono ripresi in mille e mille inquadrature. Eppure, sembra che in quel museo non sia successo nulla. Nessuna menzione della rottura nel gruppo curatoriale, che coinvolse proprio le tre anime fondative dell’opera di Verde: il video, il teatro e l’artivismo. Nessun accenno all’allontanamento forzato dei collettivi artivisti, né alla cancellazione della scritta Demilitarizzare La Spezia ordinata dall’amministrazione comunale. Nessuna traccia dell’azione di protesta compiuta da Alessandro Giannetti, storico compagno fraterno di Verde, che per quella scritta fatta col proprio sangue è stato poi denunciato e condannato con un decreto penale. Tutto questo viene ignorato. Eppure proprio quella lacerazione, quell’atto performativo e il conseguente cortocircuito istituzionale, raccontano meglio di qualsiasi altra cosa le contraddizioni radicali di Verde: artista che si muoveva dentro le istituzioni, ma che finiva spesso per prenderne le distanze.

Possibile che il documentario abbia scelto, o voluto, ignorare quella che era la cifra estetica e politica di tutta la sua vita? E possibile che in due anni di lavoro non sia mai venuto in mente agli autori di andare a indagare e a parlare con il collettivo di militanza poetica e politica Dadaboom, che ha accompagnato Giacomo Verde negli ultimi anni della sua esistenza, condividendo azioni, visioni, contraddizioni e malanni? Come mai? Troppo vivi? Troppo testimoni? Troppo scomodi? Oppure è più semplice costruire un Giacomo Verde immaginario, smussato, comodo, buono per tutte le stagioni? Un artista senza carne, senza urla, senza l’imprevisto.

Il film lo mette in scena come un maestro di teatro, ma gli nega, di fatto, l’ultimo palcoscenico e l’ultima compagnia. Un fantasma educato. Una voce fuori campo mai registrata. “Giacomo Verde non esiste” è un documentario che sa raccontare, ma non sa rischiare. Un film sulla libertà che ha paura del conflitto. Una carezza interrotta. Un archivio ordinato che dimentica il sangue.

E quindi ci resta il titolo, forse l’unico davvero onesto: Giacomo Verde non esiste. Infatti.


Luca Fani, Maggio 2025




















Intervista a Jacopo Benassi

IntervistaL’arte come barricata, la provincia come libertà

Tommaso della redazione di Discorsi ha incontrato Jacopo Benassi, artista, performer e fotografo spezzino. Siamo andati a trovarlo nel suo studio a La Spezia, dove vive e lavora, anche se è spesso fuori per mostre e progetti sia in Italia che all’estero. Con lui abbiamo parlato di arte come mestiere artigianale, delle radici punk e dell’autoproduzione, dei collettivi locali e della provincia come spazio di libertà.

Puoi vedere l’intervista completa in video nella versione digitale di Discorsi.



T: Ciao Jacopo, grazie per questa chiacchierata. Come stai?

J: Bene, direi che è un periodo molto prolifico. È come se a cinquant’anni avessi capito chi sono. Ho avuto anche la fortuna di intraprendere un percorso dentro il mercato dell’arte contemporanea. Un mondo particolare, fatto da gente ricca, ma che ti permette di sopravvivere bene, soprattutto per chi come me non ha mai ricevuto aiuti. Sopravvivo lo stesso, eh, però ora sopravvivo meglio. Posso progettare cose, fare arte: produzione. Sono un po’ come un artigiano, vediamola così.

T: È interessante, pensi che ci sia una distinzione tra l’essere un artista o un artigiano?

J: Io mi dico artigiano, perché sono un artista che lavora in studio. La mia vita non è la mostra, ma tutto ciò che accade prima. Quando inauguri una mostra e posizioni l’ultimo elemento, è come se finisse tutto. Lo studio, invece, è il mio motore: è lì che ci sono la mia storia, il mio bagaglio, il mio percorso. È una dimensione per me necessaria, quando ho la possibilità di fare mostre in musei o fondazioni, porto sempre il mio studio con me.

T: È come se fossi una tartaruga, ti porti dietro la casa.

J: Esatto, è un metodo che mi sta cambiando molto. Lo studio è la mia salvezza, la mia barricata. Però sono più frenetico di una tartaruga. Quando lavoro ho l’attitudine di un reporter in un campo di guerra, con i fucili dei cecchini puntati contro. Dipingo con adrenalina, velocemente: action directe, direbbero i terroristi francesi.

T: Andiamo agli inizi. Una cosa che ci interessa è provare ad avere un dialogo tra pratica artistica, editoriale e i movimenti di lotta. Cosa ne pensi?

J: Nasco anche io da una situazione simile. Mi ricordo il giorno in cui andai a casa di Renzo Daveti, il cantante dei “Fall Out”, e della sua compagna Anna Vespa, due punkettoni che facevano politica. Avevano una fanzine anarchica che si chiamava Adanara. Lui per me era un po’ un mito, ero attratto dall’attitudine punk, mi piaceva anche solo a livello estetico. Frequentando quell’ambiente conobbi anche altri personaggi, come Bad Trip. Erano veramente pochi in quegli anni, tutti più grandi di me, io avevo 17 anni. Ma da lì è iniziato un percorso: il Kronstadt, ad esempio, un centro sociale che occupammo sopra al Vignale, un posto dove oggi c’è una villa, in una posizione privilegiatissima sul golfo.


Era un’ex scuola, e lì nacque la sala prove dei Fall Out, poi mettemmo a posto anche il secondo piano. In quel periodo cominciai a capire tante cose. All’epoca facevo il meccanico, e ricordo quando Renzo mi disse: “Ma guarda che anche tu puoi fare arte”. Feci allora il mio primo disegno: il segno della mia mano sporca di grasso in officina con una chiave inglese, e la chiamai la “mano d’opera”. Era una cosa stupida, ma fu un avvio. In quel periodo iniziai anche con le fanzine, le prime mostre, e tanti altri progetti: coinvolgimenti con la politica, i libricini alternativi di Nautilus. Parlavamo anche di sostanze psichedeliche, tutte cose che informavano.

T: Parliamo delle fanzine: negli anni ’80 e ’90 erano strumenti molto diffusi e a basso costo, ma nei duemila sono quasi scomparse. Oggi sembra esserci un ritorno.

J: Sì, con l’arrivo di internet viene meno un po’ tutto il mondo delle fanzine. Pensa che noi, agli inizi degli anni duemila, facevamo arte postale (Mail Art), che deriva dal Fluxus, da artisti come Ray Johnson e Guglielmo Achille Cavellini. Lavoravamo prendendo i contatti a cui spedivamo le e-mail. Ma mi ricordo che in quel periodo le fanzine restavano ancora un modo per comunicare e fare selezione tra le notizie. Già internet diffondeva molta informazione. C’era Nautilus, che realizzava fanzine e libricini che potevi comprare con mille lire, una cosa che oggi pagheresti sei euro. E se è vero che le fanzine a un certo punto sono quasi scomparse, poi sono tornate sotto forma di fanzine d’arte.

T: Per noi che siamo cresciuti con internet è un po’ come se sentissimo il bisogno, adesso, di tornare alla dimensione cartacea e fisica. Mi sembra che tu con la tua pratica abbia portato avanti questo aspetto.

J: Sì, nel 2009 torna a Ravenna il primo festival dell’editoria, Fahrenheit. Era un evento dedicato alla grafica legata al mondo editoriale. In quel periodo lavoravo a Milano come fotografo per Rolling Stone e altri magazine. Ma a un certo punto scappo: torno a La Spezia e apro il BTOMIC con i miei migliori amici. La prima cosa che ho fatto, però, è stata affittare una fotocopiatrice. Volevo riprendere in mano tutto ciò che stavo perdendo: quella storia lì, quella della carta. Anche il locale è stato pensato come un luogo che si autodocumentava. Il mio progetto è molto editoriale, soprattutto nella dimensione performativa.

T: Noi ci rifacciamo un po’ al concetto di editoria espansa, cioè al modo di intendere l’editoria non come un semplice atto di pubblicazione fine a sé stesso. Per esempio, anche questa intervista è una forma di pubblicazione: siamo qui, ma potremmo trasmetterla live e sarebbe già pubblica. Ci racconti un po’ come è stato il ritorno a Spezia, il rientrare in provincia?

J: Guarda, pensi sempre di fare un passo indietro, ma in realtà riparti. Spezia mi è servita perché sono ripartito senza la paura di sbagliare, portando con me l’esperienza del “fuori” come un secondo background, qualcosa che qui puoi vivere in maniera totalmente libera. È stata la provincia a permettermi di trovare la mia strada: è un posto dove puoi riflettere senza avere costantemente addosso gli occhi del museo, della galleria o della rivista multinazionale di turno…


T: Pensi che ci siano anche degli aspetti negativi nel tornare a casa? Come ti trattano?

J: Allora, io sono rientrato aprendo subito il BTOMIC, anche se poi ho vissuto un periodo fantastico con il BOSS, quattro circoli arci che hanno aperto un festival durato quattro anni: era alla Pinetina. Anzi, proprio ieri ho detto ai ragazzi della Skaletta che se mi chiamano a rifare il BOSS io ci sono. Non era facile collaborare tutti insieme, ma è stata un’esperienza incredibile per Spezia, che oggi non offre niente. Quando vado in giro non vedo niente: o meglio, le cose succedono, ma non quelle degli ambienti da dove veniamo noi. Anche voi che siete più giovani è come se rivendicaste un passato che non avete vissuto. Il modo in cui fate cultura è come se in quei momenti lì, di controcultura, ci fosse stati. Per questo è importante continuare a fare cose.

T: Approfitto di questo passaggio, mi sembra evidente che ci sia un coinvolgimento politico nella tua pratica, vuoi dirci qualcosa?

J: Guarda, io su questo mi sento un po’, come dire, sporco di merda. Certo che ho un coinvolgimento politico perché le rose, le spine, i fiori che non ci sono e che a volte si concedono, io che divento un animale, la farfalla… Per me questi totem, che faccio giganti, sono barricate. Ma cerco di non cadere nel luogo comune. Per esempio: ho venduto delle pantofole con dello sperma sopra. La gente ricca non sa nemmeno se è vero, o se lo sa non gliene frega un cazzo. In questo senso, l’arte ti permette di entrare dove vuoi. E io un pezzettino di merda cerco di metterlo in queste cose qui. Qualcosa di politico bene o male c’è sempre, però non mi sento un artista che “fa politica”. Anche se poi, quando mi denudo, il mio corpo è in sé stesso una rivendicazione politica. Il mio fisico non è idoneo al pragmatismo della moda.

T: Proviamo a fare un esperimento. Se dovessi tornare a La Spezia oggi, quali sarebbero le cose che vorresti fare e che non hai fatto, e quali le cose che hai fatto e non avresti voluto fare? Hai dei consigli per qualcuno che torna?

J: Intanto tutte le persone che ho conosciuto in giro le porterei qui. Vorrei dare tutto quel bagaglio di esperienze a chi non ha avuto la possibilità di uscire, calando però le cose nella dimensione giusta, e non iniziando a dire: “qui non c’è questo, lì non c’è quello”. Questo atteggiamento non ha senso. Per chi viene da fuori il terreno è più facile, sei una specie di maestro. Invece, una cosa che non farei più è aprire un locale. È un po’ una battuta, ma oggi non credo che ne valga la pena. Al contrario, la direzione del BOSS la rifarei tantissimo. Prima l’Arci era un qualcosa di potente, era sostenuto. Qui mi sembra che sia cambiata proprio la gente. Oggi l’unica realtà in Italia che veramente è controcultura è AgenziaX di Marco Philopat. Sta lavorando bene. Fa libri sulla musica trap, anche se viene dal punk. È straordinario. La gente che lo seguiva ora lo critica perché non lo capisce. Gli dice che “la Trap” è musica di merda, e chiude lì la cosa. Ora, anche a me fa cagare la Trap, ma voglio conoscerla. È il nuovo punk. E per quanto riguarda la politica? Anche i Ramones politica non ne facevano, eppure è punk rock. Penso che con la Trap si possano capire molte cose di oggi.

T: È fondamentale provare ad ascoltare. Credo però che nella nostra generazione sia evidente una forma di paura rispetto all’esprimersi in qualsiasi modo, al fare politica, fare arte, perché tutto viene ignorato e quando invece le istituzioni ti rispondono, ti cancellano.

J: Quello che noto oggi nel mondo dell’arte è la voglia di continuare a tirar dentro le persone, star vicino agli amici, essere compatti. C’è bisogno di questa cosa dopo tanti anni di individualismo.

T: Ti va di dirci qualcosa del CAMeC?

J: Allora, il CAMeC è un posto che dovrebbe essere gestito dal Comune, ma il Comune non riesce a farlo, e così è intervenuta la Fondazione. È un peccato che il Comune non riesca a gestirlo, ma è anche un dramma che ora provi di nuovo a intervenire, perché l’amministrazione è tremenda. Devo dire, tuttavia, che la Fondazione, chiamando Antonio Grulli, ha fatto una scelta giusta. Lui è perfetto per un museo piccolo come questo: se gli verrà dato modo di lavorare, potrà fare grandi cose. Ha già detto che vuole collaborare con gli artisti spezzini, creare un banco con i libri di tutti gli autori locali, istituire un Premio del Golfo e aprire il museo a contatti esterni. Anche il vostro progetto, Discorsi, potreste presentarlo lì.

T: Ci piacerebbe, ma c’è un piccolo problema, abbiamo fatto un’intervista proprio a chi dal CAMeC è stato cacciato… I ragazzi del collettivo Dada Boom.

J: Vabbè, ma lì è successa una cosa che è quasi ridicola, fuori dal mondo. C’è il sindaco di mezzo che è una testa di cazzo. Anche io a Natale ho fatto una cosa al CAMeC per amicizia delle persone che lavorano nella Fondazione, e lui se la rivendica come se l’avesse fatta lui. Io questo lo smentisco: per lui non farei niente, perché non capisce un cazzo. La questione del collettivo Dada Boom è stata gestita male da tutti, quell’episodio avrebbe dovuto chiudersi senza nessuna polemica. Un museo dovrebbe essere uno spazio aperto a tutto, così è censura.

T: La cosa bella di questa storia, però, è che l’espressione “Demilitarizzare La Spezia”, che è il motivo per cui sono stati censurati, ora è stata usata come slogan dai movimenti e dai vari cortei in piazza. Si può dire che ha avuto più successo in questo modo.

J: Ma che poi, le aree militari di Spezia sono in gran parte abbandonate. Mi è capitato di entrare all’Arsenale per fare un sopralluogo e mi è sembrato tutto abbandonato, non so neanche cosa lo tengano a fare, forse perché c’è la Leonardo. Bisogna anche capire che cosa ci faresti dentro…

T: I rave.

J: Mica male, una discoteca gigantesca. Un luogo dove si mischia tutto, tutti i generi, tutta la musica, tutta la roba. Dove non sei solo perché appartieni a un gruppo, escludendo gli altri. Io sono per amare tutto. Sai, a volte mi capita di dire che mi trovo meglio a parlare con gente di destra, chiaramente non di destra razzista, che con persone di sinistra, perché a livello umano non ti mettono in difficoltà. A me piace frequentare il bar come dimensione: mi riporta alla realtà. Le idee, le ispirazioni vengono dalla gente, dalle parole. Io prendo le parole e le faccio diventare qualcosa. Trisha Brown disse che anche cadere è danzare, e io su questo ho puntato tutto il mio lavoro. Da fiumi di discorsi io vivo di queste parole.

T: Parole che poi si trasformano in azioni.

J: E diventano cose, prendono forma.

T: Grazie mille.








Volevamo salvare la Palestina

Report molto emotivo della mobilitazione per la Palestina 22/09-05/10/2025

Raccontare a parole quel che è stato quello spazio tempo che va dal 22 Settembre al 5 ottobre 2025 è cosa assai dura. Se ne potrebbero spender tante a raccontare gli entusiasmi e i dolori, le assemblee e i cortei, le acampade e i presidi permanenti, certo, ed ogni singolo attimo che è parso esser pieno di senso e destinato a non finire mai. Sarebbe sempre e comunque poca cosa e nulla vale una ricostruzione se vuol assumersi l’onere di sostituire l’esperienza.

Seguire l’ordine cronologico?

Il 22 di sciopero generale atteso ed imprevisto e poi i cortei, a raffica per giorni. Le tende in piazza, la protesta che monta e i numeri che moltiplicano, giorno dopo giorno, le vecchine con lo sformato, i bambini che disegnano, quel signore in giacca e cravatta dalle laute donazioni, gli studenti che preparano la verifica, i docenti che le correggono, i signori attempati dalla memoria lucida e l’entusiasmo appena maggiorenne, i raver col sound che celebra unione, femministe che fanno analisi con portuali, chi fa l’uncinetto, chi cucina, chi sta sveglio e copre il turno, ed il freddo, quasi in imbarazzo per il disturbo, sotto la luna, come la Digos, a domandarsi il perché. E poi i collegamenti con la flotta di mare, gli scambi, i sorrisi e le lacrime, tante lacrime versate insieme, come coperta che ammanta e unisce, scoprirsi fragili, insieme, e divenire per questo potentissime e inarrestabili. I cortei notturni e improvvisati, il dolore che diviene rabbia, la rabbia che si trasforma in forza e la forza che restituisce potenza, la potenza che libera. E ci si riscopre, ci si riconosce, si rinasce. Siamo chiunque e andiamo ovunque. La quantità, la quantità stupisce e meraviglia ma è la qualità che commuove. È una questione di qualità. E poi lo sciopero generale, di nuovo, come oroboro che torna ad inghiottirsi e rigenerarsi, così come si rigenerano le strade, il corteo. Migliaia di persone, chilometri di cortei, ore di blocchi, i principali viali, l’autostrada, il porto, la lunga fila di camion che suona a festa, ringraziano per il disagio. Blocchiamo, blocchiamo tutto. Si parte e si torna insieme, in città, tra fuochi d’artificio e il soundsystem, imponente come un sacerdote che ruggisce, e i muri, i vetri, le case intere che rispondono vibrando. I terrazzi, i sorrisi, le bandiere, “scendi giù” e quelli scendono, “unisciti” e si uniscono. È un corteo-pianta che si contrae per poi rigenerarsi, che esplode incontenibile al suono della tekno e di canzoni palestinesi che alternandosi scandiscono il tempo. Siamo marea e inondiamo. La testa conta almeno una decina di nazionalità diverse, ogni estrazione, ogni lavoro, ogni genere, ogni volto, scalpita, salta balla e si scatena: è la potenza del possibile che diventa reale. Il limite è il cielo. E si torna, Piazza Palestina Libera è bella come la rivoluzione e gli ultimi metri li facciamo a corsa perché questo tempo che abbiamo scelto di vivere vogliamo travolgerlo.

I concerti, la notte, è tempo di metabolizzare. Ma come si fa’? È alba, è mattina, è pranzo, si smonta, si và ma sempre, sempre senza interrompere il flusso che ha bisogno di pronunciare per confermare che si, è successo davvero, ne siamo testimoni-attori.

Nulla sarà più come prima, lo giuriamo, solennemente, come voto sacro, come somma adesione e i saluti incerti, gli sguardi di dubbio, le domande sospese scivolano a mare dilavate dal cielo che non ha potuto fare a meno di piangere.


E ora? Ora che frammenti di vita vissuta, di tempo liberato, di rivolta sacra schizzano nell’inchiostro di queste pagine, che aggiungere?

Volevamo salvare la Palestina, forse è la Palestina che sta salvando noi (?).



Queste poche righe riportano esperienze localizzabili nel territorio ligure apuano. Più in generale, però, restituiscono uno sguardo frammentato, uno schizzo, un’impressione che viene dalla provincia. Là dove nulla normalmente accade, la rottura della normalità genera sorprese e meraviglia, forse ancor più che nelle grandi città.


Ma cosa è stato quel magico lasso di tempo non ci è dato saperlo, almeno per ora, e risulta impossibile farne una cronaca od una fredda analisi. E va bene così; va molto bene cosi.

Report Fotografico Mobilitazione

Corteo La Spezia 03/10/2025. Foto di Francesco Terzago
Corteo Massa 03/10/2025. Foto di Melissa Mariotti
Corteo La Spezia 03/10/2025. Foto di Francesca Boriassi
Corteo Viareggio 02/10/2025. Foto di Cantiere Sociale Versiliese

Mappa

Cartography of Darkness : Cartography of Darkness:

Cartography of Darkness

Cartography of Darkness is a transclusive research platform dedicated to exploring universalisms and the unity of knowledge in our highly obfuscated, crisis-ridden age. Beginning with our situated knowledge in Lebanon, the platform’s inaugural chapter “FOR A TRANS-ELECTRIC SOLIDARITY” seeks to publicly probe and critically map the obscure genealogies of Lebanon’s techno-political and ecological histories of dispossession, ecocide and agnotology while studying the unity of knowledge. The cognitive mapping platform is comprised of a sonified accretive map made of several layers of interactive strata and spatialized data, a public media repository that makes accessible for the first time research material found in personal archives created by scientists, artists and investigative journalists and the scraped web, new text and audio research published regularly as part of a seasonal periodical/research chapter that remains open for a period of nine months.

Every periodical/research chapter seeks to expose the regimes of invisibility that contaminate and head Lebanon’s hegemonic modes of production, while fostering new ways to collaboratively see into, study and transform our environment. The contributions revolve around trans-electric and trans-regional solidarity, burgeoning social models based on mutual aid, public access and social justice as opposed to kleptocracy; and ecologies of care as opposed to the local and global economy of toxic discard and denial. By doing so, ‘Cartography of Darkness’ seeks to collectively search for ways to expose, link and see through the regimes of invisibility, the explosive environments and cultures of corruption that denigrate life from the people in Lebanon, while deeply influencing the links between the production of knowledge, the production of space and the articulation of politics.

The entirety of the architecture and code of Cartography of Darkness is made publicly readable and available for re-use through a GNU V3 open-source license. All the material in the repository that the team has directly digitised and archived are available for use and re-use through a Creative Commons license. The three spaces that make up Cartography of Darkness; the Periodical, Repository and Map are interlinked in a transclusive approach to one another. ‘Transclusion’ was conceived and coined by philosopher, sociologist and computer architect Theodor Nelson in the 1960s. It describes media that are brought in from various sources to be ‘knowably in more than one place’. Nelson also coined the relevant terms ‘hypermedia’, ‘hypertext’, ‘xanalogical storage’ and ‘intertwingularity’ that we would argue are not based on the digital advent of computational media, but on trans-millennial theories of emanation found in the quiddity of the circulation of thoughts and media.

Cartography of Darkness is made possible through a joint grant from the Arab Council for Social Sciences and the Arab Fund for Art and Culture. A major part of the digitization and archiving in the repository is made possible through the Digital Earth Fellowship and a grant by the MIT Libraries and the MIT Programme in Science, Technology Society. If you would like to contribute, you are very welcomed to get in touch on society@posteo.si .







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DISCORSI nº0
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