chapter

Intervista a Jacopo Benassi

IntervistaL’arte come barricata, la provincia come libertà

Tommaso della redazione di Discorsi ha incontrato Jacopo Benassi, artista, performer e fotografo spezzino. Siamo andati a trovarlo nel suo studio a La Spezia, dove vive e lavora, anche se è spesso fuori per mostre e progetti sia in Italia che all’estero. Con lui abbiamo parlato di arte come mestiere artigianale, delle radici punk e dell’autoproduzione, dei collettivi locali e della provincia come spazio di libertà.

Puoi vedere l’intervista completa in video nella versione digitale di Discorsi.



T: Ciao Jacopo, grazie per questa chiacchierata. Come stai?

J: Bene, direi che è un periodo molto prolifico. È come se a cinquant’anni avessi capito chi sono. Ho avuto anche la fortuna di intraprendere un percorso dentro il mercato dell’arte contemporanea. Un mondo particolare, fatto da gente ricca, ma che ti permette di sopravvivere bene, soprattutto per chi come me non ha mai ricevuto aiuti. Sopravvivo lo stesso, eh, però ora sopravvivo meglio. Posso progettare cose, fare arte: produzione. Sono un po’ come un artigiano, vediamola così.

T: È interessante, pensi che ci sia una distinzione tra l’essere un artista o un artigiano?

J: Io mi dico artigiano, perché sono un artista che lavora in studio. La mia vita non è la mostra, ma tutto ciò che accade prima. Quando inauguri una mostra e posizioni l’ultimo elemento, è come se finisse tutto. Lo studio, invece, è il mio motore: è lì che ci sono la mia storia, il mio bagaglio, il mio percorso. È una dimensione per me necessaria, quando ho la possibilità di fare mostre in musei o fondazioni, porto sempre il mio studio con me.

T: È come se fossi una tartaruga, ti porti dietro la casa.

J: Esatto, è un metodo che mi sta cambiando molto. Lo studio è la mia salvezza, la mia barricata. Però sono più frenetico di una tartaruga. Quando lavoro ho l’attitudine di un reporter in un campo di guerra, con i fucili dei cecchini puntati contro. Dipingo con adrenalina, velocemente: action directe, direbbero i terroristi francesi.

T: Andiamo agli inizi. Una cosa che ci interessa è provare ad avere un dialogo tra pratica artistica, editoriale e i movimenti di lotta. Cosa ne pensi?

J: Nasco anche io da una situazione simile. Mi ricordo il giorno in cui andai a casa di Renzo Daveti, il cantante dei “Fall Out”, e della sua compagna Anna Vespa, due punkettoni che facevano politica. Avevano una fanzine anarchica che si chiamava Adanara. Lui per me era un po’ un mito, ero attratto dall’attitudine punk, mi piaceva anche solo a livello estetico. Frequentando quell’ambiente conobbi anche altri personaggi, come Bad Trip. Erano veramente pochi in quegli anni, tutti più grandi di me, io avevo 17 anni. Ma da lì è iniziato un percorso: il Kronstadt, ad esempio, un centro sociale che occupammo sopra al Vignale, un posto dove oggi c’è una villa, in una posizione privilegiatissima sul golfo.


Era un’ex scuola, e lì nacque la sala prove dei Fall Out, poi mettemmo a posto anche il secondo piano. In quel periodo cominciai a capire tante cose. All’epoca facevo il meccanico, e ricordo quando Renzo mi disse: “Ma guarda che anche tu puoi fare arte”. Feci allora il mio primo disegno: il segno della mia mano sporca di grasso in officina con una chiave inglese, e la chiamai la “mano d’opera”. Era una cosa stupida, ma fu un avvio. In quel periodo iniziai anche con le fanzine, le prime mostre, e tanti altri progetti: coinvolgimenti con la politica, i libricini alternativi di Nautilus. Parlavamo anche di sostanze psichedeliche, tutte cose che informavano.

T: Parliamo delle fanzine: negli anni ’80 e ’90 erano strumenti molto diffusi e a basso costo, ma nei duemila sono quasi scomparse. Oggi sembra esserci un ritorno.

J: Sì, con l’arrivo di internet viene meno un po’ tutto il mondo delle fanzine. Pensa che noi, agli inizi degli anni duemila, facevamo arte postale (Mail Art), che deriva dal Fluxus, da artisti come Ray Johnson e Guglielmo Achille Cavellini. Lavoravamo prendendo i contatti a cui spedivamo le e-mail. Ma mi ricordo che in quel periodo le fanzine restavano ancora un modo per comunicare e fare selezione tra le notizie. Già internet diffondeva molta informazione. C’era Nautilus, che realizzava fanzine e libricini che potevi comprare con mille lire, una cosa che oggi pagheresti sei euro. E se è vero che le fanzine a un certo punto sono quasi scomparse, poi sono tornate sotto forma di fanzine d’arte.

T: Per noi che siamo cresciuti con internet è un po’ come se sentissimo il bisogno, adesso, di tornare alla dimensione cartacea e fisica. Mi sembra che tu con la tua pratica abbia portato avanti questo aspetto.

J: Sì, nel 2009 torna a Ravenna il primo festival dell’editoria, Fahrenheit. Era un evento dedicato alla grafica legata al mondo editoriale. In quel periodo lavoravo a Milano come fotografo per Rolling Stone e altri magazine. Ma a un certo punto scappo: torno a La Spezia e apro il BTOMIC con i miei migliori amici. La prima cosa che ho fatto, però, è stata affittare una fotocopiatrice. Volevo riprendere in mano tutto ciò che stavo perdendo: quella storia lì, quella della carta. Anche il locale è stato pensato come un luogo che si autodocumentava. Il mio progetto è molto editoriale, soprattutto nella dimensione performativa.

T: Noi ci rifacciamo un po’ al concetto di editoria espansa, cioè al modo di intendere l’editoria non come un semplice atto di pubblicazione fine a sé stesso. Per esempio, anche questa intervista è una forma di pubblicazione: siamo qui, ma potremmo trasmetterla live e sarebbe già pubblica. Ci racconti un po’ come è stato il ritorno a Spezia, il rientrare in provincia?

J: Guarda, pensi sempre di fare un passo indietro, ma in realtà riparti. Spezia mi è servita perché sono ripartito senza la paura di sbagliare, portando con me l’esperienza del “fuori” come un secondo background, qualcosa che qui puoi vivere in maniera totalmente libera. È stata la provincia a permettermi di trovare la mia strada: è un posto dove puoi riflettere senza avere costantemente addosso gli occhi del museo, della galleria o della rivista multinazionale di turno…


T: Pensi che ci siano anche degli aspetti negativi nel tornare a casa? Come ti trattano?

J: Allora, io sono rientrato aprendo subito il BTOMIC, anche se poi ho vissuto un periodo fantastico con il BOSS, quattro circoli arci che hanno aperto un festival durato quattro anni: era alla Pinetina. Anzi, proprio ieri ho detto ai ragazzi della Skaletta che se mi chiamano a rifare il BOSS io ci sono. Non era facile collaborare tutti insieme, ma è stata un’esperienza incredibile per Spezia, che oggi non offre niente. Quando vado in giro non vedo niente: o meglio, le cose succedono, ma non quelle degli ambienti da dove veniamo noi. Anche voi che siete più giovani è come se rivendicaste un passato che non avete vissuto. Il modo in cui fate cultura è come se in quei momenti lì, di controcultura, ci fosse stati. Per questo è importante continuare a fare cose.

T: Approfitto di questo passaggio, mi sembra evidente che ci sia un coinvolgimento politico nella tua pratica, vuoi dirci qualcosa?

J: Guarda, io su questo mi sento un po’, come dire, sporco di merda. Certo che ho un coinvolgimento politico perché le rose, le spine, i fiori che non ci sono e che a volte si concedono, io che divento un animale, la farfalla… Per me questi totem, che faccio giganti, sono barricate. Ma cerco di non cadere nel luogo comune. Per esempio: ho venduto delle pantofole con dello sperma sopra. La gente ricca non sa nemmeno se è vero, o se lo sa non gliene frega un cazzo. In questo senso, l’arte ti permette di entrare dove vuoi. E io un pezzettino di merda cerco di metterlo in queste cose qui. Qualcosa di politico bene o male c’è sempre, però non mi sento un artista che “fa politica”. Anche se poi, quando mi denudo, il mio corpo è in sé stesso una rivendicazione politica. Il mio fisico non è idoneo al pragmatismo della moda.

T: Proviamo a fare un esperimento. Se dovessi tornare a La Spezia oggi, quali sarebbero le cose che vorresti fare e che non hai fatto, e quali le cose che hai fatto e non avresti voluto fare? Hai dei consigli per qualcuno che torna?

J: Intanto tutte le persone che ho conosciuto in giro le porterei qui. Vorrei dare tutto quel bagaglio di esperienze a chi non ha avuto la possibilità di uscire, calando però le cose nella dimensione giusta, e non iniziando a dire: “qui non c’è questo, lì non c’è quello”. Questo atteggiamento non ha senso. Per chi viene da fuori il terreno è più facile, sei una specie di maestro. Invece, una cosa che non farei più è aprire un locale. È un po’ una battuta, ma oggi non credo che ne valga la pena. Al contrario, la direzione del BOSS la rifarei tantissimo. Prima l’Arci era un qualcosa di potente, era sostenuto. Qui mi sembra che sia cambiata proprio la gente. Oggi l’unica realtà in Italia che veramente è controcultura è AgenziaX di Marco Philopat. Sta lavorando bene. Fa libri sulla musica trap, anche se viene dal punk. È straordinario. La gente che lo seguiva ora lo critica perché non lo capisce. Gli dice che “la Trap” è musica di merda, e chiude lì la cosa. Ora, anche a me fa cagare la Trap, ma voglio conoscerla. È il nuovo punk. E per quanto riguarda la politica? Anche i Ramones politica non ne facevano, eppure è punk rock. Penso che con la Trap si possano capire molte cose di oggi.

T: È fondamentale provare ad ascoltare. Credo però che nella nostra generazione sia evidente una forma di paura rispetto all’esprimersi in qualsiasi modo, al fare politica, fare arte, perché tutto viene ignorato e quando invece le istituzioni ti rispondono, ti cancellano.

J: Quello che noto oggi nel mondo dell’arte è la voglia di continuare a tirar dentro le persone, star vicino agli amici, essere compatti. C’è bisogno di questa cosa dopo tanti anni di individualismo.

T: Ti va di dirci qualcosa del CAMeC?

J: Allora, il CAMeC è un posto che dovrebbe essere gestito dal Comune, ma il Comune non riesce a farlo, e così è intervenuta la Fondazione. È un peccato che il Comune non riesca a gestirlo, ma è anche un dramma che ora provi di nuovo a intervenire, perché l’amministrazione è tremenda. Devo dire, tuttavia, che la Fondazione, chiamando Antonio Grulli, ha fatto una scelta giusta. Lui è perfetto per un museo piccolo come questo: se gli verrà dato modo di lavorare, potrà fare grandi cose. Ha già detto che vuole collaborare con gli artisti spezzini, creare un banco con i libri di tutti gli autori locali, istituire un Premio del Golfo e aprire il museo a contatti esterni. Anche il vostro progetto, Discorsi, potreste presentarlo lì.

T: Ci piacerebbe, ma c’è un piccolo problema, abbiamo fatto un’intervista proprio a chi dal CAMeC è stato cacciato… I ragazzi del collettivo Dada Boom.

J: Vabbè, ma lì è successa una cosa che è quasi ridicola, fuori dal mondo. C’è il sindaco di mezzo che è una testa di cazzo. Anche io a Natale ho fatto una cosa al CAMeC per amicizia delle persone che lavorano nella Fondazione, e lui se la rivendica come se l’avesse fatta lui. Io questo lo smentisco: per lui non farei niente, perché non capisce un cazzo. La questione del collettivo Dada Boom è stata gestita male da tutti, quell’episodio avrebbe dovuto chiudersi senza nessuna polemica. Un museo dovrebbe essere uno spazio aperto a tutto, così è censura.

T: La cosa bella di questa storia, però, è che l’espressione “Demilitarizzare La Spezia”, che è il motivo per cui sono stati censurati, ora è stata usata come slogan dai movimenti e dai vari cortei in piazza. Si può dire che ha avuto più successo in questo modo.

J: Ma che poi, le aree militari di Spezia sono in gran parte abbandonate. Mi è capitato di entrare all’Arsenale per fare un sopralluogo e mi è sembrato tutto abbandonato, non so neanche cosa lo tengano a fare, forse perché c’è la Leonardo. Bisogna anche capire che cosa ci faresti dentro…

T: I rave.

J: Mica male, una discoteca gigantesca. Un luogo dove si mischia tutto, tutti i generi, tutta la musica, tutta la roba. Dove non sei solo perché appartieni a un gruppo, escludendo gli altri. Io sono per amare tutto. Sai, a volte mi capita di dire che mi trovo meglio a parlare con gente di destra, chiaramente non di destra razzista, che con persone di sinistra, perché a livello umano non ti mettono in difficoltà. A me piace frequentare il bar come dimensione: mi riporta alla realtà. Le idee, le ispirazioni vengono dalla gente, dalle parole. Io prendo le parole e le faccio diventare qualcosa. Trisha Brown disse che anche cadere è danzare, e io su questo ho puntato tutto il mio lavoro. Da fiumi di discorsi io vivo di queste parole.

T: Parole che poi si trasformano in azioni.

J: E diventano cose, prendono forma.

T: Grazie mille.








Labels