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Storia di un Golfo negato

InchiesteWiliam Domenichini

Spezia. Una città senza mare, un golfo militare

La Spezia convive da quasi due secoli con una profonda militarizzazione del proprio territorio. L’Arsenale della Marina Militare, costruito nel 1869, ne è l’emblema: quasi 900.000 m² di area complessiva (180.000 edificati), 1.400.000 m² di acque interne, circa 12 km di strade e 6,5 km di banchine. La sua realizzazione, all’epoca, diede un forte impulso economico e demografico alla città, soprattutto grazie all’occupazione garantita dalle officine. Un impulso che, però, col passare dei decenni è progressivamente svanito fino a scomparire.

Questo modello di sviluppo ha segnato profondamente il territorio spezzino, creando una frattura ben più ampia di quella che separa materialmente l’Arsenale dalla città: un confine invalicabile e impenetrabile che va oltre qualsiasi muro di cinta. Nel corso degli anni sono stati distrutti reperti archeologici romani e preromanici, deviati corsi d’acqua, rimossi cimiteri e abbattute chiese. La quattrocentesca San Francesco Grande, ad esempio, oggi è ridotta a un chiostro adibito a sede dei Carabinieri e a una chiesa usata come deposito di vernici. Le fondamenta dell’antica San Maurizio giacciono sepolte all’interno del perimetro militare, invisibili da 150 anni.

Dopo la seconda guerra mondiale, l’Arsenale ha mantenuto un ruolo centrale nell’economia spezzina. Lo testimoniano, per esempio, le lotte per l’emancipazione della classe operaia, che in quegli anni furono significative. Ma il declino era già iniziato: da circa 12.000 lavoratori e lavoratrici si è passati a meno di 300 nel 2024, con un ulteriore calo in arrivo previsto a causa della “privatizzazione” della Difesa. Inoltre, porzioni sempre più ampie dell’area sono state abbandonate, lasciando dietro di sé gravi criticità ambientali. Tra le più gravi, la discarica abusiva “Campo in Ferro”, scoperta dalla Procura nel 2024: amianto, accumulatori al piombo, cadmio e uranio impoverito, parti di elettrosegnalatori, pale di elicottero, parafulmini, quadranti, manometri e strumentazione contenenti radio, metalli pesanti, policlorobifenili, vernici, e molto altro ancora. Solo parte dei rifiuti è stata rimossa e coperta con terreno, avviando un processo di fitodepurazione che non risolve però il problema delle infiltrazioni nelle acque sotterranee.

Il degrado strutturale è diffuso. Nel 2018, un’allerta meteo fece volare via coperture in eternit di capannoni dell’Arsenale. E solo in quell’occasione la Marina Militare ha resa nota la presenza di circa 10.000 m² di tetti in cemento-amianto e un totale di 104.000 m² di materiali contenenti amianto in stato di degrado.

Un ulteriore caso emblematico riguarda le demolizioni delle navi Carabiniere e Alpino, che avrebbero dovuto svolgersi nei bacini di carenaggio senza alcuna verifica preventiva dell’impatto sanitario, ignorando di fatto l’obbligo di Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA), nonostante il tonnellaggio delle navi lo rendesse necessario per legge. In questa circostanza, le demolizioni in banchina furono interrotte soltanto grazie a una serie di esposti presentati in Procura.

Le accensioni dei motori delle unità militari ormeggiate in banchina producono emissioni atmosferiche spesso tali da espandersi per l’intero golfo. Secondo la Marina Militare si tratterebbe soltanto di vapore acqueo, ma le rilevazioni dell’ARPAL hanno evidenziato concentrazioni significative di particolato sottile (PM10 e PM2.5) direttamente in sito.

Non si tratta quindi di episodi isolati.

Il golfo ha visto anche il transito e l’attracco di unità a propulsione nucleare della NATO e il passaggio di carichi radioattivi, come la nave Pacific Egret, senza piani di emergenza resi pubblici. Il tutto in un contesto già reso fragile dalla presenza del rigassificatore di Panigaglia, classificato “Seveso” per il rischio di incidente rilevante. E ciò non può che aumentare l’allarme e la percezione di vulnerabilità di un territorio tenuto all’oscuro, ma esposto quotidianamente a rischi sistemici.

A questa situazione già di per sé disarmante si aggiunge il progetto “Basi Blu”. Nel 2022 il Ministero della Difesa ha presentato lo studio per l’ammodernamento delle infrastrutture militari spezzine: nuovi moli, dragaggi, ampliamenti portuali e impianti di rifornimento. Un’operazione giustificata come adeguamento agli standard NATO, ma che comporta gravi impatti ambientali, come il dragaggio di 420.000 m² di fondali, parte dei quali contaminati da piombo e mercurio, con conferimento in discarica o riutilizzo per riempimenti.

Prevista anche la riattivazione di serbatoi sotterranei (oggi fuori servizio) da 20.000 m³ sotto la Strada Provinciale 530 di Portovenere, nota come “Napoleonica”, l’unico corridoio di sicurezza per Panigaglia, oltre che un periodo di cantierizzazione dal 2025 al 2035.

L’area che un tempo era stata individuata per la demilitarizzazione, oggetto di un protocollo d’intesa mai attuato con Difesa Servizi, e attigua ai moli civili di San Vito, sarà invece adibita a cantiere logistico e deposito temporaneo dei fanghi di dragaggio.

Ma, allora, perché chiamarle “blu”, quando l’unico tratto di sostenibilità previsto riguarda qualche pensilina fotovoltaica a copertura di un parcheggio?

Il richiamo alla “sostenibilità” è ridicolo: qualche pensilina fotovoltaica da 0,852 MW a fronte di un fabbisogno di quasi 32 MW per i soli nuovi moli. Il resto dell’energia continuerà a essere prelevato dalla rete, senza investimenti reali in rinnovabili. Il costo complessivo: 1,76 miliardi di euro, in gran parte già stanziati, per un progetto che non prevede bonifiche, non garantisce occupazione stabile, non riconverte aree abbandonate. Anzi, rischia di rendere definitiva la militarizzazione del territorio.

In un regime di guerra globale segnato da continue escalation belliche, invece di prospettare scenari di diplomazia e di dialogo, si progettano infrastrutture militari per una maggiore proiezione nei teatri di guerra. In un mondo sempre più incandescente, la risposta locale è ancora una volta una maggiore militarizzazione.

È il caso del progetto di ampliamento del Sea Terminal (POL NATO), l’infrastruttura situata nel levante del golfo spezzino che consente l’attracco di navi incaricate di scaricare carburanti destinati al North Italian Pipeline System, rete che rifornisce le basi aeree di Ghedi, Aviano e Forlì, oltre ad altre stazioni intermedie, come l’aeroporto militare di Pisa. Un altro molo militare nel golfo con un impatto sul suo ecosistema già compromesso. Oppure il Polo Nazionale della Subacquea, che occupa una vasta area tra Ruffino e Muggiano, catalizzando interessi privati del settore bellico. O ancora le attività del balipedio, a pochi passi da Portovenere, dove si testano ordigni e munizioni. E infine, il Varignano, sede dei reparti speciali della Marina Militare.

“Basi Blu” rischia di diventare la pietra tombale su ogni prospettiva di pace, lavoro e sostenibilità per La Spezia. Per questo nasce la campagna NO BASI BLU con l’obiettivo di coinvolgere e mobilitare la cittadinanza e le istituzioni. I primi obiettivi sono chiari: costruire un dibattito pubblico partecipato sul progetto Basi Blu, che coinvolga istituzioni, cittadine e cittadini, associazioni, comitati e parti sociali per affrontare un piano reale di bonifica delle aree militari e di monitoraggio delle attività inquinanti, per una loro riorganizzazione e razionalizzazione. Rilanciare la proposta di valorizzazione, recupero e demilitarizzazione delle aree in stato di abbandono, dei beni culturali presenti e dimenticati (come la chiesa di San Francesco Grande), per ridare alla città la sua storia.


Restituire gli spazi in disuso alla comunità è fondamentale, è un passo necessario per ricostruire un vero e naturale accesso al mare a una città di mare, che attualmente non ce l’ha.

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